CIANBOLPÌN
Sopra un prato in cima al monte sta un ragazzo con il gregge. Fa proprio bene il suo lavoro: tutti sono fieri di lui. Le pecore brucano e si saziano, ogni giorno che passa diventano sempre più grassocce.
«Quanta buona lana per l’inverno, bravo Cianbolpìn!»; esclama il suo padrone, e aggiunge soddisfatto: «Le pecore sono grasse, il gregge è rigoglioso; ti raddoppio la paga, ti aumento il riposo».
Cianbolpìn è ben lieto di guadagnare bene e mettere via il denaro; però le giornate sono lunghe, forte il sole e pungente la pioggia. In montagna quando piove per bene, continua e continua: sembra non smettere mai.
Cade, picchia la pioggia e Cianbolpìn si rifugia tra le grotte di pietra.
«Toh, guarda: ha smesso!» pensa, e guardando in alto, si sincera che davvero non piova più; esce dal suo nascondiglio ed estrae dalla bisaccia uno zufolo. Suonicchia un po’ ma è distratto da una ragazza di bellezza inattesa e sorprendente: «O dolce ragazza del prato, chi ti ha fatta così bella nel creato?».
«Sono felice, vengo di maggio in questo prato che tanto mi piace; ma se fuggi con me in un luogo di pace, ti mostrerò un prodigio più bello di tutti, più dolce del miele, più rosso dei frutti!» e così dicendo la ragazza dai lunghi capelli rosso carota lo porta con sé.
«Dove siamo?», chiede Cianbolpìn un po’ smarrito. «In mezzo alla roccia: in un nascondiglio lontano dal mondo, via da ogni scompiglio. Qui vive la mia padrona: bella di sole, dolce di luna, di luce e di stelle la sua pelle»; «Presto! Voglio conoscerla, voglio conoscerla davvero», risponde il giovane pastore che non sta più fermo dall’emozione.
«Sei sincero?», gli domanda una voce profonda e vellutata dal cuore della roccia. Cianbolpìn indietreggia con trepidazione: «Tu, tu chi sei? Sono abbagliato»; «Sono l’Anguàna che abita la roccia del prato. Gli uomini mi chiamano Donna Kelìna. E tu, da dove vieni stamattina? Perché sei arrivato fin qua?».
Il giovane, intontito dal grande bagliore, prova a comporre qualche rima; come fa sempre quando è emozionato: «La tua luce illumina il mio sentiero e sono qui con un vento leggero. Il mio nome è Cianbolpìn, sono allegro e canterino. Mi piace suonare, le stelle guardare, la luna che nasce, l’erba che cresce. Sdraiarmi sui fiori, annusare i colori…».
«Se vuoi, puoi stare qui con me tutto il tempo che vorrai», le sorride Kelìna. «Oh, magari! Ma io di te non vedo che un riflesso, come posso conoscerti lo stesso?!»; conclude scherzoso Cianbolpìn.
L’Anguàna esce dal cuore della roccia e si mostra in tutta la bellezza del suo aspetto: la pelle è candida come la neve, il suo viso è roseo e dolce come gocce di rugiada all’aurora; il ragazzo resta incantato, senza parole.
Kelìna lo guarda e quasi volando gli sussurra una canzone: «Rimani con me, insieme ci racconteremo mille storie, vedrai: guarderemo la notte dormire e il giorno sognare; le stelle fiorire, le acque giocare…».
A quelle parole così dolci, Cianbolpìn ha il cuore che gli batte forte; perché si è innamorato all’istante. E ci credo: bella come Donna Kelìna non c’è proprio nessuno!
Passa il tempo, e torna ancora infinite volte primavera, estate, autunno e poi di nuovo inverno; ma lei è sempre giovane nel cuore e nel volto. In quel posto sembra non esserci mai freddo né caldo ma un tepore di acqua e di festa, di ruscelli e di laghi, di continua sorpresa e serenità.
Le stanze dell’Anguàna sono piene di musica: si canta, si salta, si balla per tanti anni e altri ancora, sempre così; sembra che noia e dolore non esistano neppure in quel posto incantato, pieno di felicità.
Ma un giorno la donna si accorge che il giovane la guarda con malinconia: «Che ti prende? Non sei più felice di star qui come allora?», «Certo: non c’è posto più bello della tua dimora». «E allora?! Hai una così triste espressione; che t’avviene? Non nascondermi la ragione».
«Piango la casa, mia madre e gli amici che ho lasciato al paese felici. Vorrei rivedere il luogo dove sono nato per poi tornare nel tuo lago incantato».
Un dolore intenso le punge il seno; ma senza stupore né veleno porge dolce lo sguardo all’amato e gli dona un anello fatato.
«Tieni questo anello stretto stretto e in qualunque momento sarò al tuo cospetto. Se starai male, se avrai bisogno; non esitare a sfilarlo dal dito: volando come in sogno, verrò da te e non sarai più smarrito. Ti imploro, torna tra nove ed un giorno; perché nulla di male ti accada al ritorno».
Con promessa e buona sorte lo bacia a lungo alle porte e avvolgendolo di mille premure, lo lascia andare per le pianure. Cianbolpìn si incammina fiducioso verso il suo paese, sicuro di trovare gli amici ad aspettarlo e i suoi cari: la mamma, il papà, i suoi fratelli, i cugini, i nonni, lo zio e la zia; insomma tutti!
Cerca intorno: in campagna, nelle piazze; tutto è strano, tutto è cambiato.
«Chi sei?», «Che vuoi?», «Chi ti conosce?»; gli chiedono un po’ ovunque.
«Come chi sono?», chiede il giovane meravigliato; «Sono Cianbolpìn!», risponde sicuro.
«Cian-bol-pìn…! Ah, ah, ah, che nome buffo!».
«Non conosciamo nessun Cianbolpìn che sia di queste parti»; conclude infine una vecchiaccia bitorzoluta tutta ossi e stracci penduli.
«Ma come? Sono io, il pastorello: mi deste lavoro ed un gregge…».
Interviene infine un vecchio grassoccio ancor più vecchio della vecchia: «Cianbolpìn, questo nome non mi è nuovo. Sì, sì! Ora rammento: mio nonno mi raccontava di un tale che, quando lui era bambino, si era perso nel bosco. Le pecore tornarono a valle; ma del povero pastorello non si seppe più nulla. Sono vecchie fole, favole che ci raccontavano da bambini per farci stare fermi, buoni e zitti».
«Ah, tu non puoi essere lui: saranno passati almeno duecento anni, anzi metticene ancora altri venti!», conferma infine la vecchia che vuole sempre avere l’ultima parola su tutto.
Per lui il tempo non è passato ma tutto intorno il suo segno ha lasciato; tanto che ora gli anni sono addirittura duecentoventi e nessuno rammenta i suoi lineamenti. Ma vi rendete conto di quanto è accaduto? Sarebbe come se adesso, in un battibaleno: vi trovaste a duecento anni con il visetto giovane e bello di un bambinello!
Eh sì, un incantesimo in piena regola. Il nostro Cianbolpìn non sa proprio cosa fare; ma tanto per cominciare ha una fame gigantissima e vuole tornare al più presto dal suo amore.
Fa per incamminarsi lungo il sentiero quando scorge una locanda. «Chissà quante cose buone ci saranno là dentro…»; pensa Cianbolpìn, e presto detto, subito fatto: «Oste! Forza: un piatto di minestrone con i fagioli e un buon bicchiere di rosso. Ho la fame a più non posso!».
«Povero ragazzo! Sei triste e sfinito di stanchezza. Non ti preoccupare, noi abbiamo quello che fa per te: lingue di rana in salmì, cervelletti di scimmia in salsa verde, fegatini piccanti e saporiti di serpentello spartiacque ardimentoso, costatine di rinoceronte con moschette della prateria…».
«Ma siamo impazziti! Che razza di posto è mai questo?», chiede perplesso Cianbolpìn, la cui fame pretendeva molta più semplicità e immediatezza. «Ho detto: minestrone con i fagioli e una bottiglia di rosso; e questo voglio», conclude indispettito.
L’oste si mette di buona lena e porta pane, vino e naturalmente il minestrone coi fagioli, al ragazzo affamato che mangia di gusto e divora tutto senza pause. Quando finalmente si è ben rifocillato; si accorge dei vicini ai tavoli che discutono animatamente su chi sia la più bella tra le ragazze del paese.
«Io, io, io… Ho vissuto tanti anni in un solo momento con la donna più bella del firmamento!»; sbotta fuori Cianbolpìn.
«È ubriaco, non lo vedi?», «Poveraccio, chissà da dove viene…», pensano in molti; ma Cianbolpìn insiste talmente tanto, che presto si organizza una scommessa ufficiale e in un attimo la locanda è già piena di tutte le più belle ragazze del paese.
Si attende in gran silenzio che anche Cianbolpìn mostri la sua. Il ragazzo si alza, sfila l’anello dal dito e pronuncia serio queste parole: «Donna Kelìna, adesso in un solo sbadiglio, esci fuori dal tuo nascondiglio e mostra a tutti senza cordoglio che sei la più bella d’ogni germoglio!».
«Un poeta!», dicono i più allegri; ma si zittiscono presto non appena vedono entrare silenziosa e decisa una creatura mai vista prima, piena di luce e di splendore.
La donna si avvicina al giovane senza dire una sola parola, gli prende l’anello di mano, si gira e scompare nel nulla; così com’è venuta.
Per un momento restano tutti fermi e immobili, davanti a tanta bellezza rimangono senza fiato; infine portano del vino al giovane che ha vinto la sua scommessa: davvero nessuna è più bella di Donna Kelìna.
Però Cianbolpìn non vuole saperne di bere ancora e se ne va mesto, in silenzio. Vaga per giorni e giorni, in cerca della sua amata.
Torna alla rupe incantata; ma non la vede, non la trova. Solo roccia, roccia dura dappertutto. Cerca, bussa, corre intorno: ancora pietre, sassi cocciuti ed erba rinsecchita!
«Basta! Cammino da troppo. Ho i piedi che mi fanno male, c’è poca luce. Non ce la faccio più», grida disperato; ma nessuno lo ascolta e la rupe della sua Anguàna si fa ogni giorno più dura.
Dopo settimane di cammino, incontra un bivacco dove tre tipi loschi gli gridano addosso: «Stai alla larga! Siamo i briganti che begano e attaccano briga con tutti; perciò non prenderti la briga di sfidar chi attacca briga, sennò son beghe».
Cianbolpìn, che quando sente parlare in rima riprende tutta la sua voglia di vivere, non perde l’occasione e rincalza in fretta: «Ma io sono solo stanco e ho tanta fame. Non mi permetterei mai di sfidare la vostra fama; per voi la noia durerà poco se mi fate stare al caldo del vostro fuoco!».
I briganti si fanno una bella risata e acconsentono: «Sei troppo divertente!».
Gli offrono da bere e da mangiare; infine si preparano per dormire: «Eh, dobbiamo riposare stanotte che domani è una giornataccia piena di botte», dice uno dei tre.
Cianbolpìn si avvicina curioso ad uno strano drappo di stoffa… «Che fai sbadato! Non toccare quel mantello. È un prodigio: è fatato!»; tuona severo il grande capo. Il giovane non se lo fa ripetere due volte e fingendo di non capire: «Ma sì! Non ci credo».
«Come non ci credi! Questo è il sortilegio frutto di un maltolto: un mantello che vira di colpo. Lo indossi, gli comandi l’azione e lui ti porta in ogni direzione».
«Non ci creeedo! È tutta un’invenziooone».
«Ah, sì! Indossalo un attimo e vedrai», esclama sicuro il più ingenuo dei tre.
«Certo, con sommo piacere»; e detto fatto Cianbolpìn, furbo e intelligente, indossa al volo quel portento e se la fila in un momento. Lascia con un palmo di naso i tre briganti e sfreccia nel cielo a cavallo del mantello fatato.
Ora la speranza è rinvigorita: può cercare la sua preferita più forte del tuono, più in fretta del lampo; nell’acqua, nel fuoco, nel campo!
Ti meravigli e sei scosso di quanto l’amore abbia smosso energie e sentimenti tra incredibili accadimenti? Ancor nulla hai sentito, dato che il nostro mito ne sta passando di nuove e di belle per incontrare la sua donna di stelle.
Egli cerca disperato la dolce fenditura che nella roccia si apre un varco; ma che spaventosa si fa l’avventura quando trova la casa dell’Orco!
Quello salta fuori mostruoso e puzzolente; ma il ragazzo subito volteggia nell’aria, così veloce che all’Orco resta ben poco da dire e si mette a canticchiare stonato:
«Cianbolpìn, non ti scomponi? Prendi al volo le occasioni e mi mostri lesto i nuovi incanti del mantello dei briganti?! Ti risparmio la vita, sei coraggioso e impavido: meriti d’essere della partita con me che sono unico e avido!».
Finita la canzone sentenzia: «Ora ti assoldo per l’impresa che domattina faremo in difesa della ciunchésa dei biolfìdi ciòlposetti dove la cottalèsta rimplobétti cerca conlìpralétta di tutti i pòtti rètti!».
Va bene, va bene; abbiamo capito. L’Orco spiega a Cianbolpìn cosa c’è da fare e l’indomani il giovane lavora sodo e senza posa. Sradica tutti gli alberi del bosco che segnano il confine della valle: così gli uomini avrebbero smesso finalmente di litigare. Già perché l’Orco in fondo è buono: aiuta gli uomini ed è molto orgoglioso di Cianbolpìn.
Ognuno è fiero di Cianbolpìn fin dai tempi che pascolava il gregge, più di duecento anni fa; perché lui non si ferma mai, e ha sempre voglia di lavorare…
«Cianbolpìn, Cianbolpìn! Che fai? Ti metti a dormire proprio adesso?»
«Ma tu chi sei?», chiede il giovane assonnato.
«Come chi sono! Son la moglie dell’Orco, l’hai scordato scaldasterpi? Che fai? Non muovi un dito? Aspetta che torni mio marito! Ti attende un compito arduo e faticoso: l’Anguàna della rupe, Donna Kelìna, ha da poco partorito un maschio rigoglioso; la sua casa tra le rocce mute va ripulita, arieggiata, rifornita e lustrata! Ripulita, arieggiata, rifornita e lustrata; ripulita, arieggiata, rifornita e lustrata. Hai capito?!».
A quelle parole Cianbolpìn diventa tutto rosso in viso e il cuore gli batte fortissimo. È il momento giusto: l’Orco, ormai vecchio e stanco, l’avrebbe portato con sé ben nascosto dietro il suo corpo grasso e bitorzoluto: meglio non farsi riconoscere da Donna Kelìna che non vuole più saperne di lui dalla brutta faccenda dell’osteria.
E c’è proprio da scompisciarsi per le risate, a vedere Cianbolpìn che sfreccia via con il mantello dietro all’Orco e vola, vola; mentre il vecchio mostro gonfia la bocca e soffia in tutte le stanze: per rimuovere la polvere di un luogo così incantevole un tempo, ma ormai trascurato dall’amara tristezza della sua padrona.
Cianbolpìn pulisce tutto, ma proprio tutto; perché conosce ogni angolo di quella casa tra le rocce per averci vissuto più di due secoli, e lustra, lucida, soffia, strofina, pulisce, ripulisce e pulisce ancora…
«Finito finalmente! Che faticaccia. L’Orco vola a casa con il mantello. Non si è neanche accorto che sono sgattaiolato fuori. Meglio che mi infilo qui, nascosto per bene… Schhh!».
Cianbolpìn resta immobile dentro l’armadio e scorge da una fessura un bambino nella culla: la sua pelle è chiara come la betulla, il viso dolce e vivace; ma il cuore della mamma tace.
Continua a guardarlo silenziosa Kelìna, che negli anni è rimasta uguale; ma tanto è bella e tanto è triste: da quando è rimasta sola quel brutto giorno all’osteria.
«Ah, se solo tuo padre potesse baciarti, prenderti in braccio e coccolarti! Quell’uomo a me tanto fedele; per una sola volta mancò di sentimento ed io per quell’unico momento, così crudele, gli negai per sempre il mio cuore. Dove sei adesso mio dolce amore?».
Cianbolpìn, commosso, capisce che sta parlando di lui e con coraggio esce dal suo nascondiglio: «Sono qui, mia unica fonte di felicità. Sono qui per sempre: non più distante. E voglio amarti per l’eternità».
All’istante, come per un arcano sortilegio, tutto torna normale: la roccia diventa una casa; Cianbolpìn è ancora un pastore. L’Anguàna è una fanciulla del paese e la ragazza del prato dai lunghi capelli rosso carota sua sorella.
Tutti tornano indietro nel tempo di duecentovent’anni, ritrovano se stessi e ognuno è al suo posto come un minuto prima. Cianbolpìn e Donna Kelìna invecchiano insieme cercando di essere felici; il loro bambino cresce forte e sano.
La leggenda non finisce così: Cianbolpìn, Donna Kelìna e il bambino restano nella casa tra le rocce e non tornano indietro nel tempo; ma nella vita quando ci si innamora e si sceglie di stare insieme, forse si diventa piccoli eroi proprio per questo. Come il nostro Cianbolpìn che è stato giovane, saggio, stupido, vecchio, brigante, solo e cocciuto, figlio e padre, affamato e sazio, amante e amato; in un solo minuto.
La fiaba è tratta da una leggenda popolare. Il presente testo costituisce lo studio per un progetto, inizialmente abbozzato da Giovanna Palmieri e Claudio Quinzani che ne ha curato la presente stesura. Nel 2007 – 2008 è stato parte dello spettacolo Terre in movimento – alias I Selvatici allestito da Alessio Kogoj e Giovanna Palmieri, I Teatri Soffiati, Teatro delle noci. Il testo presentato resta un sentito omaggio agli artisti citati ed è qui riportato senza alcuno scopo commerciale.
illustrazione di Lisa Massei
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