ZUCCA E MELOGRANO
Zucca era cresciuta insieme alle altre in un campo poverello e poco soleggiato. Ormai era bella grossa e sapeva che di lì a poco qualcuno se la sarebbe presa e l’avrebbe venduta al mercato.
Ma Zucca sognava sempre di diventare uno di quei soprammobili che finiscono sulla credenza del salotto; dove ci sono tutti i bicchieri, i piatti e le posate per le grandi occasioni. Sognava che le sistemassero un campanellino sul gambo, in modo da essere la prima ad avvertire in caso di terremoto; voleva averla vinta su piattini e forchette.
Zucca non era molto rossiccia, pendeva piuttosto sul palliduccio. La sua pelle non era costantemente toccata dal sole e fin da bambina soffriva di un brutto male che non le dava tregua: non riusciva a respirare bene come tutte le altre zucche, per cui era sicura di non essere tanto matura; ma lei era felice così: meno matura era e più tardi sarebbe giunta la sua fine.
A Melograno piaceva osservare, da quel suo rametto obliquo, l’intera assemblea delle zucche: sempre in guerra tra di loro; litigavano a più non posso per conquistarsi il posto migliore e per riuscire ad essere il più vicino possibile all’acqua del ruscello.
Melograno non si stancava mai di prenderle in giro e continuava a gridare dalla cima del suo ramo: «Zuccone, avreste dovuto nascer sugli alberi; guardate che pacchia quassù!».
Melograno avrebbe potuto anche cadere da un momento all’altro e ciò sarebbe stato davvero pericoloso per la sua sciatica; ma era bello morbido e pacioccone e senz’altro avrebbe parato l’urto in modo egregio.
Il suo timore più grande era quello di rompersi in due, che dolore solo pensarci: «Dover finire in bocca a qualche passante sventurato, piuttosto che sulla tavola dei gran signori!».
In fondo che differenza faceva per Melograno che era un solitario e si beava della sua bellezza interiore: rimirandosi e lodandosi in continuazione. Sapeva di avere tanti bei granellini rossi rossi, dentro quella corteccia nodosa e cocciuta.
Solo chi avrebbe saputo gustarseli, poteva capire. E l’affascinava il solo pensiero che qualcuno un giorno avrebbe contemplato la sua finissima membrana giallognola che divide ciascun scomparto del suo frutto, come cellette di api al lavoro.
Ahimè, quel giorno tardava a venire e Melograno finì col cadere a terra suo malgrado, in seguito all’avvenuta maturità.
Fu un uccellaccio di passaggio, goffo e pesante, che si posò proprio su quel rametto obliquo; rametto si spezzò con Melograno e foglie comprese: un volo di quasi quattro metri!
L’uccellaccio gracchiò indispettito e, sbatacchiando le ali assonnato, sparì nel cielo terso da dove era piovuto.
Melograno, che precipitava in volo, era molto timoroso di cadere su qualche cardo con le spine; ma confidava di resistere grazie alla sua corteccia.
E finì proprio su Zucca: «Ahi! Che screanzato!», replicò quella.
«Perdonate signorina, non era mia intenzione»; si affrettò a giustificarsi Melograno.
«Va bene, va bene: non si prolunghi oltre e mi lasci in pace!»; ma Melograno non si muoveva. «Non mi molesti oltre ho detto», ribadiva Zucca.
Melograno stava lì: proprio sopra il gambo della poveretta, nel punto in cui le sue gibbosità formavano una piccola rientranza; ci era finito giusto sopra.
La poveretta continuò a sbraitare ma era inutile: Melograno sembrava irremovibile. Poi si spiegò meglio: «Cara, come posso spostarmi? Io ho giusto un gambetto che mi permetteva di stare appeso; dove posso trovare le gambe per muovermi?».
«Oh disgrazia, mondo zuccone! Non si accorge di quanto siamo ridicoli? Quando le altre si sveglieranno dal sonnellino del pomeriggio e ci vedranno imbastiti su in questa maniera; rideranno a crepazucca fino a domattina! Oh che misera condizione che mi tocca sopportare».
«Ma Zucchetta mia non si disperi. Riesce piuttosto a respirare con me posto qui ad ornamento? Posso anche farle da parasole, pronto a soddisfare ogni sua richiesta», si affrettò ad aggiungere Melograno.
«Sciocco, ma non capisci? Non comprendi bellimbusto che non respiro qui dal gambo; ma traggo fiato e nutrimento dalla terra che ho sotto di me! Poi il sole già si nasconde da queste parti e tu pretendi anche di pararlo; e non chiamarmi Zucchetta!».
«Lei si sbaglia signorina: io dall’albero ho osservato e l’ho vista respirar proprio dal gambo; e che sbuffate che fa quando è contrariata. Perciò mi dispiace di esserle finito proprio in bocca. Insomma, se proprio non mi vuole, mi soffi via; ma per favore, non mi mangi».
«Ma come posso mangiarla piccolo nodo fastidioso! E va bene: respiro proprio da qui ma non volevo che la cosa le pesasse; in fondo in fondo: anche le zucche hanno un cuore»; concluse lei arrossendo un po’.
«Ma come? Non le rendo difficoltoso il respiro, proprio lei che…»; «Ma non sono io che soffro d’asma, stupidone. È l’altra mia compagna che sta laggiù: lì, vedi? Vicino al ruscelletto», si affrettò a concludere Zucca che probabilmente aveva intuito il debole di Melograno per la Zucca del ruscello.
Avvistatala che si stava risvegliando, Melograno si mise a canticchiare ad alta voce un motivetto, cercando di darsi un po’ di contegno: «Ben alzate a tutte zucche filomene? Come è andato il sonno? Spero bene! E dite: da quanti anni di grazia, spuntate su questa terra d’Ignazia; la contadina assai carina che passa di qui ogni mattina?».
Le zucche, che cominciavano a risvegliarsi, guardarono tutte nella sua direzione; mentre Melograno proseguiva sciorinando il suo scioglilingua: «Guardate dove son finito? Che buffo! Vi spiegherò in uno sbuffo donde son partito. Dall’albero son caduto e in volo planai su questo stretto imbuto. Che scomoda posizione: non posso che lamentarmi della mia condizione!».
«Senti, senti: parla lui. E io che dovrei dire?», aggiunse subito Zucca; ma Melograno proseguì imperterrito: «Ma dato che son qui, vi allieto tutto il dì con sonetti e canti melodrammatici finché dal campo spariranno i fanatici che non apprezzano la poesia e disdegnano l’arte mia!».
«Bravo! Bis», gridarono in coro le zucche del prato; ma Melograno non si dava tregua e continuò subitissimo: «La mia arte è buona e contagiosa, non fa male alla priora uggiosa e conforta i fraticelli che vengono qui a cogliere i piselli. È del bambino la maestra, risveglia il mondo sempre in festa. Se potessi muovermi aggraziato, ora per voi danzerei cadenzato; ma son gobbo e nodosetto, non ho il passo del ballerino perfetto!».
Un coro di gaiezza si levò tra la folla delle zucche eccitate che chiedevano ancora bis e lanciavano un sacco di complimenti.
Una sola non si beò del nuovo venuto, era proprio quella che ispirò Melograno a comporre la sua canzone: la Zucca del ruscello, sempre triste e sconsolata. Non parlava mai con nessuno e se ne stava lì sola soletta, a udire lo scrosciare fulmineo delle fredde acque.
Melograno capì il suo stato d’animo e non le chiese nulla per non imbarazzarla. Rimase lì in silenzio ad aspettare il primo giorno di burrasca che come ogni autunno non si fece attendere molto.
Cominciò a piovere come quando il cielo si arrabbia davvero. Melograno si lasciò trasportare dai goccioloni d’acqua, si fece trascinare dal vento; con la Zucca sulla quale era stato tutto quel tempo che gli sorrideva e gli augurava ogni cosa bella: aveva capito prima di lui cosa si è disposti a fare quando si vuole veramente bene a qualcuno.
Ma Melograno, tutto preso a correre sotto la pioggia, non aveva capito ancor bene tutto. Spingi che ti rispingi, finì proprio alle spalle della piccola Zucca del ruscello.
«Che bella che sei: con tutte le tue fette sporgenti ben marcate sul mantello, così cicciotta e buona! Sicuramente devi essere buona, buona come… Buona come una zucca!»; si sorprese a pensare tra sé Melograno tutto emozionato.
Cercò di avvicinarsi pian piano il più possibile senza farsi scorgere, le pose una fogliolona sulle spalle fredde e si riparò anche lui sotto l’ombrello verde improvvisato.
Dicono che i melograni, almeno una volta nella vita, possano spostarsi e compiere rapidi movimenti; solo se spinti da una causa così nobile che supera le forze della loro stessa natura.
A Zucchetta venne un brivido quando si vide poggiare quella grande foglia sulla nuca; e riuscì a dire in un soffio: «Che pensiero gentile avete avuto signor Melograno».
Melograno si preoccupò prima di sprofondare per bene il gambo della foglia nel terreno, così che rimanesse ben salda al vento; e poi, tutto impacciato esclamò: «Bè, so che soffrite: cioè, ho pensato di farvi cosa gradita se…».
«Ma non stia lì a bagnarsi oltre, scioccone: venga qui sotto la mia scorza dura!»; e Zucca, che non voleva sentirsi ricordare troppo che non stava molto bene di salute, gli fece spazio tra il suo corpo grosso grosso.
Melograno si mise ancora più vicino e tutto intenerito le disse: «Come si sta bene qui con te. Meno male che sei bella grossa, altrimenti!».
Diventò tutto rosso quando si rese conto del suo apprezzamento; ma Zucchetta si fece un bel risolino, poi gli si avvicinò un po’ di più e gli cantò una dolce nenia seguendo il ritmo della pioggia, lo scorrere del ruscello e il suono del suo cuore.
«Non tenere le tue dolci scoperte tutte per te. Se agli altri le svelerai, anche se di averle sprecate temerai; a qualcuno che non sai, il cuor di certo sfiorerai e un po’ tu lo trasformerai. Solo così potrai scoprirne ancora: di cose nuove e di cose belle».
Appena smise di cantare gli sussurrò: «Basta seguire gli strumenti della natura, è molto semplice».
Melograno estasiato le disse che lei era bravissima e lui in confronto con le sue filastrocche aveva ben poco da raccontare; ma Zucca gli assicurò che quel giorno lui era stato magnifico. Semplicemente lei non aveva potuto rallegrarsi come tutte le altre; perché appena si agitava e cominciava a ridere un po’ più del solito, le faceva subito male a respirare.
Melograno, toccato dalle sue parole, disse solo: «Nessuno mi ha mai detto delle cose tanto belle!»; poi la accarezzò con una gocciolina di pioggia. Zucca fece per piangere ma ricordò che non doveva subire forti emozioni e si trattenne.
Melograno capì e guardandola da sotto in su le disse: «Sto tanto bene con te!»; «Anch’io piccolo Nodosone mio, sto tanto bene con te», le confermò Zucca.
Ancora tante cose si dissero i due durante la notte. Sembravano fatti per caso proprio l’uno per l’altra. Lentamente smise di piovere e una goccia si fermò giusto sul limitare della foglia; dietro brillava la luna lontana.
Zucca e Melograno si assopirono insieme; ma poi un brutto pensiero li risvegliò di soprassalto sul far dell’alba.
Melograno si fece coraggio e chiese a Zucca se gli voleva bene. Zucca, che era la prima volta che qualcuno era così dolce e premuroso con lei, gli disse di sì con molta naturalezza.
Melograno si intenerì ma si riprese quasi subito ed esclamò: «Ma cosa penserebbero tutte le altre zuccone se ci vedessero insieme domattina? Cosa potranno dire le tue compagne? Attribuiranno tutto ad uno stupido scherzo di natura e ci prenderanno in giro per il resto dei nostri giorni. Ma guardiamoci bene: tu sei una zucca e io un melograno!».
«Appunto, è proprio questo il bello!»; concluse sicura Zucca: «A me di tutte le altre mi interessa ben poco, io ti voglio bene e questo mi basta; e a te, importa qualcosa?».
Tutto impacciato Melograno stava per balbettare qualche parola tenera e conclusiva; non riusciva a resistere al pensiero di tutti i giudizi che gli altri avrebbero imputato loro un giorno.
Il poco spazio che li divideva dalla fine della notte gli faceva una gran paura. Pensava che sarebbe stato di gran lunga meglio chinarsi un po’ con sollecitudine; e senza coraggio, recitare la parte del sorpreso, attonito, timido codardo.
Sapeva benissimo che prima o poi li avrebbero divisi gli uomini. Per soffrire meno un giorno, o per lo meno con questo proposito in testa, decise di far conto di non ascoltare il suo cuore: non avvedersi di tutto l’amore che aveva per Zucca.
Arrovellandosi a pensare a quanto fosse difficile recitare la vita, si riprese il suo fogliolone e fece per allontanarsi dalla parte del ruscello alle prime luci del mattino, quando tutto il campo stava per svegliarsi con quel gran baccano di sbadigli e stiracchiate.
Decise di andarsene in fretta senza voltarsi indietro; ma il cuore era molto più forte di tanti ragionamenti e quando girò appena gli occhi per guardare Zucca, questa era già saltata sulla foglia con tutte le sue forze e lo spronava: «Dài fifone, non hai ancora capito che all’amore si deve dar retta. Ora, forza: adesso o mai più!».
E in meno di un minuto erano già nell’acqua del ruscello a cavallo delle onde e delle correnti; verso il loro nuovo futuro, lontano dal branco, lontano da tutti: lontano dal mondo.
E tutte le zucche, gli alberi di melograno e il bosco intero; cosa avrebbero detto?
Nessuno si era accorto che nel campo non c’erano più né Zucca né Melograno; perché è così per ogni cosa: una novità presto nasce e presto se ne va.
Ognuno continua la sua vita come sempre e nessuno sembra accorgersi di niente: se dài retta alla gente non vai mai al di là di nessun muro.
Zucca e Melograno se ne andavano fischiettando, il ruscello si calmava giù a valle; lentamente i due si incamminarono tra la foschia del mattino. Se vi capitasse di incontrarli, pensate soprattutto che hanno amato l’amore e la libertà al di là di ogni cosa.
Il sole già faceva capolino dietro le montagne e pareva a guardarlo da lontano: la testa di un gigante che si alza piano dal corpo, squadrato a picco tra le cime dei colli.
scritta e ideata da Claudio Quinzani
illustrazione di Simone ILOVETU
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