SOFFIONI
Non avresti scorto in tutta la radura un solo contadino. L’ora era insolita per il lavori agresti, il sole picchiava sul campo: un’indefinita distesa di grano; e tra il grano e la strada, ai limiti della radura: due soffioni. Il nome di uno era Lauro, il nome dell’altro era Terry.
A Lauro sarebbe bastato avvicinarsi a Terry e mostrarle tutta la lucentezza dei suoi petali; a Lauro sarebbe bastato sfiorare il suo stelo con un velo di polvere della strada. Lauro chiedeva nulla più d’un po’ della brezza di Terry.
Ma Terry disse un giorno: «Noi non siamo vento e il vento ci fa paura. Noi non possiamo lasciarci andare a tenui carezze, siamo così labili: un’emozione e già saremmo finiti. I nostri petali, così belli a vedersi, sarebbero subito scossi e perduti. E cosa ne rimarrebbe del nostro povero stelo, senza capolino? Osserva i girasoli di quel campo laggiù: loro sì che possono vantarsi e divertirsi a rimirare il grande astro. Sono stabili e integri sul loro gambo, perfetti in tutte le loro forme: dotate ognuna del suo gustoso frutto. E gli uomini li colgono per i loro pappagalli e i loro dolci, e gli uomini li ritraggono sulle loro tele, e gli uomini ne parlano alle loro donne; ma il soffione: nulla di più fremente e caduco del soffione. Di noi, che ne sarà di noi? Chi si prenderà cura di noi un giorno?».
«Forse le dita graziose e veloci d’una gentile bambina dai capelli d’oro, un giorno ci coglieranno», le rispose Lauro.
«Solo per soffiarci via!», concluse Terry.
«Solo per soffiarci via», confermò Lauro; «Ma adesso ci sono qui io, ed io voglio prendermi cura di te».
A Terry non parve vero e non pensò più che essi erano semplici soffioni, non pensò che un giorno avrebbero dovuto morire nel vento del mattino o sotto le sferzate della notte. Non pensò, non pensò più.
E con Lauro scordò d’essere fiore ma divenne guizzante gazzella, castagno duro e resinoso, divenne gufo, faggio e cinciallegra.
Con Lauro, Terry si accorse di avere un cuore, di muoversi; di vivere. Poteva anche lei ammirare il sole e respirare la polvere della strada; poteva anche lei muoversi finalmente per strade infinite pur rimanendo nello stesso posto.
Ma Lauro era così preso da Terry e dal raccontarle in viso ogni sua gioia, che neppure si accorse che lei si muoveva per davvero! Muoveva appena i suoi fragilissimi petali e li piegava piano verso di lui. Terry era riuscita a muoversi; ma Lauro non se ne accorse neppure e continuò a trasformare il suo pappo in mille sfavillii colorati e fantastici.
Terry, ammaliata e intontita dai suoi sguardi, non seppe più volgere il capo verso quella corolla in continue evoluzioni e si arrestò. Si fermò delusa; ma riuscì a sorridere come un timido bambino davanti ai fuochi d’artificio, senza dare a vedere la sua vera tristezza.
Senza vento, senza un filo di vento Terry si era mossa. Non seppe più tornare dritta sul suo stelo ma rimase lì: piegata e curva di appena un soffio sul suo Lauro; ma neppure in quel momento Lauro se ne accorse e continuò a schioccare il suo pappo in saette, lampi e tuoni fragorosi.
Lauro credeva che questo fosse il modo più bello per prendersi cura di Terry; ma Terry non poté capire e tornò presto ad essere fiore.
Eppure solo Lauro si era accorto di Terry, avrebbe potuto anche lui piegarsi e sfiorarle i petali con la sua prima brezza di soffione; ma non seppe proprio muoversi: neppure d’un fiato.
Solo Terry ci riuscì, perché solo Terry seppe amare. Era incredibile che un soffione amasse, eppure Terry amò. Sembrava impossibile che un soffione viaggiasse, eppure Terry viaggiò. Impensabile che un soffione piangesse, eppure Terry pianse.
La strada si riempì di gente che tornava dai campi; dalla chiesa del paese suonavano le campane che benedicevano il raccolto e la festa riempiva ogni strada, ogni portico, gli anfratti di ogni via.
Passarono innamorati di corsa, giovani donne in bicicletta, uomini con il vestito della domenica; professori occhialuti che disquisivano sul valore delle piante: sulla differenza tra le rose, le begonie e gli asfodeli. Nessuno sembrava preoccuparsi di Terry e Lauro. Passò un curato di campagna dalla lunga veste nera; ma neppure un lembo sfiorò i denti di leone.
Fu un bambino, un piccolo bambino che fece presa con tutte le sue dita sull’esile gambo, per staccarne stelo e corolla e donarli alla sua mamma. Ma la tentazione di alitare su quel capolino fu troppo grande e nel guardarli li sfiorò emozionato con le labbra; spargendo in mille soffi quella sfera perfetta, bella, dolcissima, eppure così lieve.
E fu subito notte. Tra l’erba e Terry poche gocce di bianco siero.
scritta e ideata da Claudio Quinzani
illustrazione di Sabina Botti
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